Incredula

Non riesco a resistere. Proprio non posso aspettare. Ho pensato: “Questa la devo assolutamente e subitaneamente raccontare ai miei lettori. Roba fresca, roba buona.” Sono appena tornata dal seggio, dove ho votato per il referendum sulla terza pista dell’aeroporto di Monaco. No, giuro, un’esperienza pazzesca. Vi è mai capitato di votare in Italia? Immagino di sì. Bene, allora la scena che sto per descrivervi vi sarà familiare.

Il tipico elettore italiano si prepara per andare a votare con il certificato elettorale perenne che gli è stato comodamente recapitato a casa anni prima (perlomeno quello). Prepara anche il documento d’identità e si avvia verso il seggio assegnatogli. Arrivato, nota stuoli di poliziotti a guardia del fortino, che controllano che le operazioni elettorali si svolgano regolarmente. Poi inizia a cercare di districarsi tra il labirinto delle classi della scuola dove si svolge la votazione. Sezione B2, a sinistra, poi lungo il corridoio, poi salire le scale, girare a destra e infine terza porta dopo le toilettes. Fila. Non per il bagno, per il seggio. A meno che, ovviamente, non si sia scelto un orario strategico, tipo quello in cui c’è la finale del campionato. Poi l’elettore controlla se deve andare a consegnare il certificato elettorale a destra o a sinistra, a seconda se è maschio o femmina.  Dopo che lo scrutatore ha controllato nell’elenco maschi o femmine che l’elettore sia iscritto davvero in quella sezione elettorale e mentre un altro scrutatore parallelamente ne controlla l’identità, viene consegnato all’elettore il seguente materiale:

  • scheda elettorale adeguatamente timbrata la mattina precedente dai muli scrutatori, che le hanno stampigliate rigorosamente una ad una con un solo ed unico timbro, risalente più o meno all’epoca del duce. Ah … e mentre uno scrutatore timbrava, l’altro firmava le schede. Tempo totale dell’operazione: da 4-5 ore a molte di più se ciascun elettore deve votare per più di un “argomento”. E mi pare giusto; io ho sempre pensato di proporre che le schede fossero anche validate da un’impronta digitale, perché non si sa mai, di questi tempi, insomma cosa vuoi…
  • matita con inciso sopra il numero della cabina elettorale, che l’elettore dovrà utilizzare per il voto e che va riconsegnata rigorosamente allo scrutatore. Guai ad infilarsi in una cabina elettorale che non corrisponde al numero sulla matita: si potrebbe capitare dentro ad una cabina in cui sia già presente un elettore votante.

L’elettore si reca dunque dentro una delle cabine chiuse ed ultra-protette a disposizione e compie in gran segreto il suo dovere (ossia infila una fetta di salame felino nella scheda). Compiuta l’operazione di voto, egli/ella fa scivolare la scheda nello scatolone per la raccolta o la consegna ad uno scrutatore che la infilerà personalmente nel box. A questa operazione devono assistere sia l’elettore che lo scrutatore con la massima serietà, per evitare imbrogli. Infine l’elettore si vede riconsegnate in pompa magna il suo documento d’identità e la sua tessera elettorale timbrata per evitare doppie votazioni e può così andarsene sotto allo sguardo vigile delle autorità di polizia. Il tutto avviene con tono solenne e barocco e una certa aria di formalità.

Insomma io, abituata da sempre così, mi aspettavo la stessa identica cosa qua in Germania ed ero tutta emozionata mentre mi avviavo a piedi per recarmi al seggio, nella scuola elementare di quartiere. Mi chiedevo: saprò districarmi tra i corridoi della scuola per trovare l’aula in cui devo votare? O mi perderò? E se mi ferma la polizia e mi chiede un documento  e parla in bavarese e io non capisco? E se non distinguo in quale delle cabine mi devo infilare e sembro così una rimbambita? E se … e se… e se… In pratica ero parecchio in tensione. Arrivata davanti alla scuola, vedo che c’è nemmeno un poliziotto. Zero. Nisba. Null. Dico: avrò sbagliato scuola. No, no, era proprio quella giusta. Ci sarà, che ne so, un vigile almeno? No. Un sorvegliante, al limite anche un pensionato che controlla. No. No. No. Ingresso libero. Procedo disorientata da tanta informalità e comincio con l’occhio a cercare i cartelli che indichino la sezione/aula in cui devo votare. Nada. C’è solo una porta aperta con su scritto “Aula di votazione”. UNA. Entro, non c’è fila, ottimo. Tiro fuori dalla borsetta il mio certificato elettorale, una lettera in carta riciclata con i dettagli di dove, come, quando votare, che poi potrò buttare via. Mi preparo per mostrare il passaporto. Non mi guardano neanche in faccia: si fidano che io sia io e non mi controllano il documento. Un’occhiatina al certificato e al loro elenco di elettori, senza distinzione di maschi e femmine, e via. Mi mollano una scheda elettorale di carta riciclata, senza firme, timbri, bolli, nulla e una matita blu non numerata. Io mi siedo ad un banchetto scolastico semi-protetto da un sorta di barriera di legno, con altri elettori di fianco a me. Sudo, mentre cerco di leggere le tre (come tre? Ma perché tre?) pappardelle in tedesco burocratese sulla terza pista di decollo e sotto a ciascuna metto JA oppure NEIN (speriamo di avere capito bene, va là). Poi mi alzo, infilo la scheda ripiegata come pare a me nello scatolone magico e via che vado, trasecolata. Cioè, penso, e l’aria formalissima e la solennità della cosa? E lo spiegamento di autorità per impedire inganni, doppi voti e scherzi poco simpatici? E la cerimonia della riconsegna della scheda al presidente di sezione? E il controllo a raggi X del documento d’identità? Voglio dire, io potevo anche essere un’altra, che ne sanno loro. Ma qui, ormai l’ho capito, tutto si basa sulla fiducia, quindi loro partono dal presupposto che non vi siano trucchi né inganni. Sempre più incredula, copro il tragitto scuola-casa e sento nella mia testa risuonare frasi come: “Ma non ci posso credere. Dai, no. Una roba mai vista. Cioè, ma ti rendi conto? Insomma, boh. Secondo me era tutto finto, dai. Ora salta fuori il tipo della candid camera e mi chiede il consenso a trasmettere la mia immagine dopo lo scherzone.”. E non ho proprio resistito:  l’ho voluto condividere in real time con voi. Che ne pensate?

VOTA!

Cari lettori, ho avuto un periodo di sospensione e vuoto ispirativo dovuti al terremoto: il mio pensiero era praticamente sempre a Modena e dintorni. Come staranno i familiari? Saranno tranquilli? E l’amica che dorme in macchina si sarà rilassata? E tutti quelli che si trasferiscono al mare nel weekend, come vivranno il ritorno in città la domenica sera? E via dicendo. E mi sembrava, scrivendo, magari con leggerezza e ironia, di fare loro un torto, di non essere in qualche modo solidale. Ma poi mi è tornata la voglia e il sacro fuoco della scrittura si è riacceso dentro di me. E insomma eccomi di nuovo a voi. 

Qualche sera fa ero lì bella bella che me ne tornavo dal lavoro e, come sempre faccio, ho controllato la posta – vera, non elettronica –   e che cosa ti vedo sul tavolo, in mezzo alle varie buste e bustine? Una lettera a me indirizzata di colore grigiastro del “Kreisverwaltungsreferat”, un’istituzione grosso modo circa come la nostra anagrafe, con su una scritta in grassetto: “Wichtige Unterlagen von Ihrer Wahlbehörde!”. Addirittura col punto esclamativo. Santo cielo, ma che cosa sarà mai? Apro e cerco di districarmi tra le varie terminologie burocratiche, e quindi già di per sè complicate, di una lingua già di per sè complicata come il tedesco. Leggi e rileggi, controlla e ricontrolla, verifica e riverifica, in breve, senza farla troppo lunga e insomma, per arrivare dritti al punto, non disperdersi in mille rivoli che nulla c’entrano e non tenere in sospeso i lettori… che cos’era? Un invito per andare a votare il 17 giugno. Con tanto di indicazioni dettagliate su come, dove, quando, chi, perché. Votare? mi sono detta io, colta parecchio di sorpresa. Poi, come fulminata da un’epifania improvvisa, mi sono ricordata che sono anche cittadina tedesca e per giunta ufficialmente residente a Monaco, quindi. Quindi devo votare. Ok, vado a votare, ci mancherebbe. Ma un minuto. Votare per che cosa? Cioè, va bene che sono svanita e di politica ne mastico pochissimo, ma non mi ero per niente accorta che ci fossero elezioni imminenti qua in Germania. Sono proprio così fuori dal mondo? Eppure quantomeno la radio al mattino la ascolto, qualche sbirciatina alla TV mentre il marito supersonico guarda il tiggì, la butto. E coi collegi ci chiacchiero on a daily basis, quindi qualche aggiornamento su quanto capita nel mondo esterno, mi arriva. Eppure. Allora mi sono detta: che faccio ora? Raccolgo al volo qualche info sui maggiori partiti tedeschi e mi faccio fare una piccola lezioncina di base su chi è chi? Ma a chi chiedo? E poi, in tutta coscienza, non si può votare così, un tanto al braccio, tanto per votare, ma con le idee raffazzonate. Non va bene. D’altronde non posso neanche acculturarmi in velocità  sulla storia politica tedesca degli ultimi 30 anni, per allargare così la mia coscienza civile. Non fraintendetemi: non è che non m’interesso di politica, è che proprio non ci capisco un pero. Ci ho provato e riprovato: ho letto i giornali, ho seguito i dibattiti in TV, mi sono fatta spiegare le cose da chi ne sa più di me. Nada. Sono al punto di partenza: zero assoluto. Tra me e la politica non c’è feeling, non scatta quel qualcosa in più. Sono molto più il tipo da esplorazione dell’interiorità, focus sulle emozioni, percorsi di crescita personale. Se mi capita di vedere in una trasmissione due candidati alle elezioni che discutono tra loro e, poniamo, uno dei due è inferocito e urla, beh io mi metto a pensare: “Ma perché urla così, che bisogno ha? Forse sente l’esigenza di dare sfogo alla sua rabbia repressa proiettando le sue paure sull’altro e tenendolo così sotto controllo?”. In conclusione, un disastro.

Per fortuna che proprio così avulsa dalla realtà circostante non sono e così, nei giorni successivi al ricevimento della lettera, ho iniziato a notare i numerosi cartelli disseminati ovunque per Monaco. JA/NEIN ZUR DRITTEN STARTBAHN! Sì o no alla terza pista di decollo. E via con le immagini di aerei in sottofondo. In pratica l’aeroporto di Monaco ha già due piste e ora se ne vuole costruire una terza. Nel 2025 si prevede di raggiungere il picco di 58 milioni di passeggeri l’anno e di conseguenza lo spazio attuale non basta. La “Regierung von Oberbayern” ha già preparato il suo progettino e ora abbisogna solo dell’approvazione dei cittadini affinché si possa procedere. Certo, Monaco è un aeroporto importante, un punto di snodo nevralgico per il traffico aereo tedesco e se gli ospiti a bordo aumentano, non li si può lasciare a piedi. E poi volete mettere il ritorno economico, l’impatto positivo sull’occupazione, l’immagine della città? D’altronde non si può trascurare l’impatto ambientale. L’inquinamento acustico, quello da carburante: l’aria diventerebbe ancora più satura di rumore e gas. E l’eventuale congestionamento del traffico verso l’aeroporto? Per quanto riguarda invece eventuali ripercussioni o dietrologie varie politiche (tipo il partito destra vota Sì perché il loro candidato finanzierebbe in parte la progettazione; oppure a sinistra dicono di votare no perché sennò perdono l’immagine e i voti degli elettori), mi spiace: non conosco i retroscena, gli intrecci, le sozzure varie. Mi limito a riflettere sugli aspetti pratici della vicenda e cerco di decidere ciò che possa essere il meglio per la mia città d’adozione. E una decisione l’ho presa. Ma prima, se posso, mi piacerebbe moltissimo conoscere il vostro parere e sapere se nelle vostre città vi è mai toccato di decidere in merito ad un argomento simile. Se non è l’aereo magari potrebbe essere il treno ad alta velocità, lo scavo per un ennesimo tunnel, un inceneritore, un reattore nucleare, una discarica. Insomma, condividete la vostra opinione, raccontatemi! Così magari anche io mi posso fare un’idea ancora più precisa e posso votare sul serio con consapevolezza.

La Terra trema

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E ora per voi un post che non c’entra granché con la tematica dell’espatrio… [pausa di riflessione] … o forse sì. Il fatto è che tra Modena, Ferrara e Bologna in questo momento sta succedendo il finimondo.  Il terremoto che circa dieci giorni fa si è abbattuto con violenza su quelle zone, ieri mattina si è fatto risentire con due scosse fortissime, impietose ed impetuose. E io lo sono venuta a sapere non dalla TV, non dalla radio, non da voci, bensì in presa diretta ed in tempo reale dall’e-mail di un amico che lavora a Bologna: “Qua tremiamo”. Voleva dire che tremava la terra e tremavano loro. Dalla paura, dall’angoscia, dallo smarrimento. Ho sentito raccontare ed ho letto di gente in preda a crisi di panico, in lacrime, con le mani strette nelle mani di altri, magari sconosciuti. E non riesco ad immaginare; o meglio: ci provo, ma sono certa che la mia immaginazione non può cogliere in alcun modo fino in fondo le sensazioni di chi si trova là, con il terreno che davvero può mancare sotto ai piedi da un momento all’altro. Proprio là da dove vengo io. Io che sono qua, angosciata al massimo da una deadline sul lavoro, io che sono qua al sicuro a Monaco, tra ufficio e casa. Che al mattino apro la mia paginetta Feisbuc  e, da lontano, ho la cronaca diretta, minuto per minuto, di quello che sta succedendo a 500 Km di distanza. “Stanotte non ce l’ho fatta a dormire in casa: auto.” scrive un’amica. “Io mi sono messa a letto con la tuta da ginnastica e le scarpe indosso. Poi però non ho chiuso occhio” commenta una conoscente. “Io tenda, ragazzi, tenda” scrive un altro personaggio che non conosco. Ma anche se non conosco tutti quelli che scrivono, li sento vicini ugualmente senza distinzioni. Guardo le foto degli edifici distrutti su Internet, vedo le chiese a pezzi, le case crollate, le auto sfondate. E penso che avrei potuto esserci anche io là. E penso che adesso, da qua, non posso fare niente, se non telefonare, mandare sms, pregare, sperare, pensare, confortare i familiari e gli amici a distanza.

Essendo cresciuta in quelle zone, so che cosa vuol dire “rischio sismico”. Mi ricordo il primo terremoto della mia vita: ero una bambina, ero in macchina; la terra ha tremato e io non mi sono accorta di niente. Il giorno dopo, a scuola, ci hanno spiegato tutto per filo e per segno: che cosa era successo, come mai, come comportarsi nel caso dovesse succedere di nuovo. Ed è successo di nuovo sul serio: più volte negli anni. Un’altra volta, ricordo, ero un po’ più grandicella e me ne sono accorta eccome: ho visto l’armadio di camera mia oscillare pesantemente e poi ho sentito un gran boato. Ricordo la paura, ricordo di avere guardato fuori dalla finestra per capire, ricordo di essere corsa fuori di casa per sentirmi più sicura. E all’epoca la magnitudo fu nulla in confronto al terremoto di questi giorni in Emilia. Pertanto non posso in alcun modo ignorare quello che è successo e sta succedendo, perchè è un pensiero fisso, è un continuo andare con la mente a coloro a cui vuoi bene, augurandoti che finisca il più in fretta possibile e che torni il silenzio. O meglio, che torni il rumore di una normale quotidianità.

P.S. no, il mio articolo non è uno di quelli bellissimi, lunghi, toccanti,  pieni di metafore, tipo le macerie nel cuore, la crepa nell’anima e simili. Non mi sono impegnata più di tanto a scriverlo, é venuto più che altro fuori di getto; voleva essere un pensiero di solidarietà per i miei “corregionali”! Tenete botta, rega!

La solita tedescofila che vede tutto brutto in Italia e tutto rosa in Germania

Ho ancora la macchina targata italiana e di conseguenza l’assicurazione italiana. Qualche settimana fa, mi è arrivata la solita e-mail automatica della compagnia di assicurazione on lain, che mi avvertiva dell’imminente scadenza della polizza. Desidera rinnovarla? Ecco come fare. E seguivano le istruzioni. Una delle possibilità era la carta di credito e ancora adesso mi chiedo come mai io non abbia semplicemente ricaricato la mia prepagata e usato quella per pagare la rata. Comunque. Ho deciso che avrei pagato tramite bollettino postale al momento di calare a valle per le vacanze pasquali.  Tanto che cosa ci vuole: la solita coda di un’ora in posta e poi è fatta. Mai previsione fu più lontana dalla realtà di quello che poi avvenne.

Dovete sapere, che qualche anno fa avevo richiesto all’assicurazione la possibilità di pagare la polizza in due rate semestrali e questa volta ho cambiato idea: volevo pagare in un’unica rata, per spendere meno (chi paga in due rate, paga infatti circa 50 euro in più all’anno).  Quindi, arrivata in quel della mia cittá natale, mi sono attaccata al telefono per comunicare questo cambiamento al call centre dell’assicurazione. Ecco un riassunto per punti-chiave di quanto avvenuto tra il 2 aprile e il 19 maggio di quest’anno.

1)      2-5 aprile: tre tentativi di contattare il call centre portano, tutte e tre le volte,  a parlare con “ProntosonoAnna/Francesca/Simonachecosapossofareperlei?” che mi comunica che il loro sistema informatico è fuori uso e che non si può fare nulla. Prego richiamare domani.

2)      Il 5 aprile Giulia mi dice che mi richiamerà lei quando il sistema riprenderà a funzionare. Incredula e grata, metto giù il telefono. Ma, nella diffidenza, mi decido ad aprire il sito Internet della compagnia e a fare io stessa on line il passaggio da 2 rate semestrali alla rata annuale unica. Fatto, ma dubito che abbia funzionato.

3)      Giulia mi richiama davvero (grazie, Signore, grazie!) e mi dice che dal sistema non risulta il cambiamento che io ho effettuato on line. Ci pensa lei a sistemare. Beh, almeno.

4)      Il 6 aprile vado in posta a pagare il bollettino. Ma poiché ho effettuato il passaggio di cui sopra, non posso utilizzare il bollettino prestampato che mi aveva mandato l’assicurazione, ma devo usarne uno compilato a mano da me. Quindi l’assicurazione ha bisogno che io comunichi  loro l’avvenuto pagamento della polizza, senò non se ne accorgono. Ora spiegatemi come mai allora sul bollettino postale, di cui una copia andrà anche all’assicurazione, io abbia dovuto indicare la causale del pagamento con tanto di numero di polizza. Così, per sport.  Vabbè, facciamo finta di niente e andiamo avanti.

5)      Vado in tabaccheria per mandare via fax all’assicurazione la fotocopia del bollettino di pagamento. Aggiungo una scritta a caratteri cubitali – come da istruzioni della tipa del call centre – che dice “mandare per favore tutti i documenti di polizza in Würstelstraße 12 a Monaco di Baviera.”

6)      Il 9 aprile, fiduciosa e piena di speranza, e con la polizza in scadenza il 27, riparto per Monaco a bordo di un aereo e in compagnia del bambino bionico. Sicura che tutto fosse andato bene e che avrei ricevuto i documenti di polizza a casina in Germania. Calcolando i tempi giurassici delle poste italiane, ho ritenuto che vi fosse abbastanza margine.

7)      Il 21 aprile mi arriva un simpatico sollecito di pagamento della polizza via e-mail. EEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEH? Ma che stai a ddì???? Ma che stiamo a scherzà? E il fax? E la fotocopia del bollettino? Ussignur. Non posso chiamare l’assicurazione, dato che il numero verde dall’estero non funziona (furbi eh?).

8)      Il 22 aprile mando un’e-mail al servizio clienti dell’assicurazione con la fotocopia del fax che avevo spedito il 6 aprile.

9)       Il 23 aprile quelli dell’assicurazione si svegliano e dicono che è tutto a posto, ma come mai voglio i documenti a Monaco? Ma se me l’avete detto voi che potevo farlo! Mi viene da piangere, ma spiego con calma. Ah ok, tutto a posto, glieli mandiamo a Monaco.

10)   Il 2 maggio, a polizza scaduta da 6 giorni, mi arriva un’e-mail automatica che dice che i documenti di polizza mi sono stati spediti via posta. Ah grazie, velocissimi, complimenti. Bravi! Cioè e tra il 23 aprile e il 2 maggio che cosa avete fatto? Avete preso il caffè alla macchinetta? Siete andati in bagno a rinfrescarvi? Vi é preso un attacco di scabbia e siete dovuti correre in massa al pronto soccorso?

11)   Il 15 maggio ancora nulla. Ore 10, calma piatta. Niente di nuovo sul fronte occidentale. Il deserto dei Tartari. Tutto tace. Nessun documento pervenuto e io che giro con i documenti di polizza scaduti, pregando in tutte le lingue che conosco che non mi capiti alcun incidente. Mando un sollecito via email all’assicurazione. Nessuna risposta. Inizio a sospettare che siano tutti morti e rifletto sulla possibilità di telefonare a “Chi l’ha visto?”.

12)   Il 18 maggio mi arriva un’e-mail in cui, scusandosi a profusione per il ritardo della risposta, mi dicono che hanno rispedito tutti i documenti e che me ne mandano anche una copia elettronica perché non si sa mai. WOW! Grazie, ci ho messo solo sei settimane a sbrigare la cosa. Mamma mia, che velocità e deficienza ed efficienza! Ottimo, dai, poteva andare peggio! Potevo non prendere mai la linea con il call centre e marcire accanto al tavolino del telefono; potevo rimanere ferita in una sparatoria sulla via per l’ufficio postale e non riuscire a pagare il bollettino; poteva saltarmi per aria la macchina, rendendo così inutile la necessità del pagamento dell’assicurazione. Come sono fortunata!

Comunque, per concludere. Ad oggi, sabato 19 maggio, ancora non ho ricevuto gli originali di questi caspita di documenti di polizza, che chissá se mai arriveranno. Non male eh?

Ottimo servizio eh,  assicurazione on lain: complimenti e grazie per avermi ricordato uno dei motivi per cui sono venuta via da casa. Viva l’Italia, va là.

T’attacchi al tram!

Qualche sera fa, mi è capitata l’occasione di attaccarmi al tram. Letteralmente. Ma non perché mi si fosse rotta la macchina e io sia dovuta ricorrere ai mezzi pubblici per spostarmi. No, piuttosto sono stata invitata ad un tram party. “Cioè?” dirà il lettore incuriosito e desideroso di saperne di più. “Cioè che sono andata ad una festa su un tram, sopra al tram o meglio dentro al tram.” Risponderà la blogger divertita. “Ma che cosa ci facevi là? Non ci pare di avere letto da nessuna parte che tu, Eireen, sia un party animal o robe simili. Insomma, non sei fra le prime dieci frequentatrici della vita notturna bavarese.”. “E neanche tra le prime venti, se è per questo. In generale conduco infatti una tranquilla vita da donna di famiglia, ma qualche volta potrò pur uscire anche io a divertirmi, no? Altrimenti mi dimentico come si fa!”. Insomma, long story short, una mia collega in procinto di sposarsi e il suo futuro consorte hanno voluto festeggiare l’addio alla vita da single, raccogliendo tutti i più cari amici a bordo di un mezzo di trasporto monacense risalente agli anni ’50. “Affascinante! Chissà che atmosfera. Ma come si è svolta la cosa?”, continuerà il nostro lettore, perplesso e disorientato, “Come si fa a fare un party sopra a un tram? Tutti lì seduti a guardare fuori dal finestrino, col biglietto in mano pronto per l’obliterazione, ma con capellino a cono in testa e trombetta in bocca?”. Allora la blogger, magnanima, con un sorriso scioglierà tutti i dubbi, raccontando della festa nel dettaglio e chiarendo i particolari della vicenda.

In pratica questo pare essere l’ultimo grido delle feste qui nella capitale bavarese. Il festeggiato si mette d’accordo con l’azienda dei trasporti pubblici di München, noleggia un tram, invita gli amici e… via che si parte! Il mezzo viene decorato a festa, con palloncini e altre amenità; viene allestita una zona bar, per cui sta all’ospite e/o ai festeggiati provvedere bevande e cibo e infine viene organizzata anche la zona DJ, dove si può diffondere musica a tutto volume. Il giro è partito, nel nostro caso, da Max-Weber-Platz alle 20:00 scoccate, esattamente come da contratto: giuro, neanche un microsecondo di ritardo, robe proprio da tedeschi!. Noi invitati ci siamo trovati alla fermata e poi il glorioso automezzo al momento dovuto è giunto e ci ha caricati tutti. Lo ammetto, all’inizio mi sono sentita abbastanza cretina. Soprattutto perché per raggiungere la fermata designata, causa impossibilità a trovare parcheggio, sono dovuta andare in U-Bahn. E poiché mi ero messa abbastanza elegantina, con camicia di classe e scarpa vellutata tacco 10, beh in metropolitana sulle prime mi sentivo leggermente fuori posto. Perché si sa che, da noi, il binomio “mezzo pubblico-tiratura a lucido del passeggero”, non va molto di moda. Invece qua in Germania è normalissimo vestirsi eleganti per un evento e poi prendere la metro per raggiungere il luogo prescelto per la serata. Infatti quando quella sera ho visto frotte di supersgnoccole tedesche, anche loro in gran tiro, prendere la metro insieme a me, un poco mi sono rilassata. Per risentirmi subito cretina a bordo del tram. Voglio dire, uno si trova lì in piedi, in uno spazio vitale ridottissimo, schiacciato dagli altri passeggeri, con in mano un pacchetto di patatine che si è portato dietro per contribuire alla festa. Poi il tram parte, inizia a scivolare attraverso le via e le piazze della città, uno guarda fuori dal finestrino, fa due chiacchiere con gli altri, si mette in bocca qualche nocciolina per non sembrare del tutto idiota, ma poi? Allora ho pensato: vado verso il bar, così magari col bicchiere in mano ho l’aria più coinvolta e meno rigida e magari un goccino d’alcol mi scioglie un po’ e non sembrerò più una scopa nel ripostiglio. Il tram intanto viaggiava, con noi a bordo, con la musica che saliva e l’atmosfera che pian piano si scaldava, mentre la notte calava sulla Weltstadt mit Herz. E ovviamente con il trascorrere delle ore, per tutti quanti l’entusiasmo è salito, l’alcol è entrato in circolo(*), la parlantina si è sciolta, il piede si è mosso sempre di più ed alla fine, verso le 22.30 la festa ha raggiunto il suo picco massimo di riuscita. Tutti gli ospiti ballavano e si agitavano senza remore, né inibizioni, lanciandosi in passi di danza mai osati a bordo di un mezzo pubblico e scatenandosi come forse non avevano ancora fatto in vita loro. C’era poi chi faceva foto, chi filmava la scena , chi annunciava a squarciagola: “La mia prossima festa, anche io la faccio su un tram! Su le maniiiiiiii!”. Insomma, un successone. Alle 22:45, come da accordi, il tram ha chiuso il giro e ci ha mollati a Sendlinger Tor, dove ciascuno ha proseguito la propria notte godereccia facendo vela verso altri locali notturni (i più giovani) oppure ha raggiunto senza indugi la propria abitazione per crollare immediatamente addormentato (IO!). “Carino” dice il lettore alla fine del reportage “adesso provo a proporlo alla azienda municipalizzata della mia città e chissà, magari. Ma un dubbio. E se a uno scappa la pipì durante il viaggio? Con tutto quelle bibite, per tre ore, insomma come ci si organizza? “. “Oh mio ingenuo lettore” sorride ancora la blogger, scuotendo la testa “non ricordi forse che siamo in Germania? Credevi che questo particolare fosse sfuggito alla teutonica previdenza? Giammai! All’interno del giro turistico festaiolo sono previste, infatti, ben due fermate presso bagni pubblici. Non sia mai che l’azienda tramviaria di Monaco si ritrovi con la vescica di qualcuno sulla coscienza!”.

(*) Don’t try this at home! Bevete sempre con moderazione e non guidate dopo avere bevuto!

Il bambino bionico

Devo ammetterlo: prima di scrivere questo post, ho esitato parecchio. Perchè di blog mammeschi in giro ce ne sono parecchi e io non vorrei mai che questo diario on lain venisse scambiato per uno di questi. Perchè al momento la rete è sovraccarica di racconti personali su vomitini, pannolini e pupù di neonati e sulle gesta eroiche  ed i miracoli compiuti da lattanti, bambini e adolescenti di ogni età. C’è chi racconta i primi passi del proprio pargolo e riesce a farci sopra diciotto post. C’è chi sfoga con ironia le sue ansie da mamma, sperando, nella condivisione, di alleviare le proprie paure e finisce che ti racconta anche che la sua principessa quel giorno si è rotta un unghia. E c’è chi si limita a due righe quotidiane, in cui descrive gli imperdibili gugugu del figlioletto, ma quelle due righe, seppur striminzite, devono per forza comparire ogni giorno sull’apposita pagina web. E poiché io, spesso, per partito preso evito le cose che tutti fanno, beh mai mi sognerei di travolgere i miei lettori con valanghe di post sulle tappe della crescita di mio figlio di cinque anni e mezzo, il bambino bionico. Però, dato che anche lui è protagonista di questa avventura tedesca, non voglio neppure far finta che non esista, e inoltre mi sembra giusto e rispettoso verso il lettore dare una spiegazione, chiarire il mistero, svelare il gran segreto, aprire il cofanetto magico e rispondere alla domanda che tutti da mesi si pongono. Ma perchè caspita questo bambino è soprannominato “bionico”? Forse che, come nella celebre serie televisiva ammericana anni ’70 “L’uomo da Sei Milioni di Dollari”, si tratta non di un bambino, ma di una creatura mezza umana e mezzo robotica? Oppure si tratta più banalmente di un pupo nato in provetta? O “bionico” è la storpiatura di “biologico”, dato che si parla di un pargolo nutrito esclusivamente di prodotti dell’orto coltivati a mano e irrorati con concimi naturali? Niente di tutto ciò. Ora potete finalmente smettere di rigirarvi nel letto la notte, di consultare amici e conoscenti per avere un parere, di googlare per ore come dei pazzi l’espressione “bambino bionico” – con e senza le virgolette – , tormentandovi di dubbi e domandandovi continuamente il perchè di questo misterioso soprannome. Da oggi la vostra vita cambierà: di seguito vi rivelo, finalmente, i motivi per cui ho trovato opportuno appiccicare al mio inconsapevole figlio l’etichetta di “bionico”.

  • Il bambino bionico è capace di svegliarsi alle 7 del mattino, correre, giocare, rotolarsi, fare capriole, saltare, arrampicarsi, fare a botte con altri bimbi, andare in monopattino, costruire casette coi Lego, fare puzzle, disegnare, fare un giro al parco, zompare da un divano all’altro del salotto, fare la cyclette e nascondersi dietro alla poltrona, senza interrompere mai la sequenza, senza mai lamentarsi della stanchezza e senza mai cessare di provare a coinvolgere un adulto qualunque – tata dell’asilo, genitore, amico di famiglia, passante – in queste sue attività. Alle nove di sera, quando io, macinata da otto ore di ufficio, tento di avviarlo sulla via del letto, lui è capace di dirmi: “Mamma, giochiamo?”.
  • Il bambino bionico possiede una proprietà di linguaggio che al confronto i membri dell’Accademia della Crusca sembrano tutti Mami di Via col Vento. Solo che pretende che tutti coloro che gli stanno intorno usino le parole esattamente nel suo stesso modo. Esempi tratti dalla vita reale: “Mettiti le scarpe. Su. Perchè non te le metti?” “Quali scarpe? Qua ci sono solo dei sandaletti” (da bravo bambino ormai tedeschizzato!) oppure le varianti “Scendi dalla macchina” “No, è un furgoncino”; “Ti metto la macedonia nel bicchiere” “Ciotola, mamma, ciotola!”. Ancora: “Sono stufa marcia di doverti dire che cosa fare” “Mamma, le persone non possono marcire” (e chiamalo fesso!).  Per non parlare di quando bacchetta me e il marito supersonico, perchè abbiamo usato il termine sbagliato in tedesco o non abbiamo imbroccato la pronuncia di “Neunzehnhundertfünfundfünfzig”.
  • Il bambino bionico è arrivato in Germania in gennaio sapendo dire, male, “Eins, zwei, drei” e verso maggio era già entrato negli annali dell’asilo per il record assoluto nella velocità d’apprendimento di una lingua puntigliosa e demotivante come il tedesco. Le tate lo citano spesso come esempio luminoso, ma irraggiungibile, di conoscenza della lingua di Goethe da parte di un bambino non madrelingua. Non mi squasserei più di tanto se, tra qualche anno, io sentissi le educatrici che ci saranno allora al Kindergarten, dire: “Narra la leggenda che molto tempo fa, vi fosse qui un bambino italiano, che dopo solo pochi mesi parlava il tedesco come non avesse mai fatto altro in vita sua. Perlomeno, questo è quanto raccontano i manoscritti.”.
  • Il bambino bionico è de coccio. Se è convinto di sapere una cosa, niente lo dissuaderà dal crederla, nemmanco l’evidenza più assoluta: continuerà per sempre a pensare di conoscere la verità a dispetto di tutto. Per esempio, poiché al momento sta imparando a leggere e scrivere in due lingue, capita che si confonda e che scriva con grande impegno “FLUCZOIC” (Flugzeug=aereo), come se fosse il nome di un farmaco anti-sinusite da inalare con l’aerosol. Dopodiché passa i successivi 30 minuti a confutare con tutta la sua forza me, che cerco di spiegargli che in tedesco, a differenza dell’italiano, non si scrive come si pronuncia. Perché lui sa, perchè lui ha vissuto e conosce, perchè lui è ben oltre i nostri banali concetti di vero e falso. E, più spesso che no, per non rovinarsi la giornata, è opportuno lasciar perdere e farlo vivere beato nell’illusione di avere ragione.
  • Infine, il bambino bionico possiede una velocità di movimento che lo rende capace di coprire distanze di qualunque tipo in tempi da Guinness. È sufficiente, infatti, allontanare gli occhi da lui per il tempo di Planck, l’intervallo di tempo minimo misurabile nell’universo, che lui è già schizzato chissà dove, forse verso altre galassie, ormai irrecuperabile. Tipicamente quando vado con lui in luoghi pubblici, necessito del guinzaglio: gli attacco un lembo del manico della mia borsetta alla maglietta e sono tranquilla che non sparirà. Tanto per dirne una, un pomeriggio ero con lui nel supermercato più grande di Monaco, un luogo pazzesco, enorme, nel quale, si racconta, vagano ancora le anime dei clienti che vi si sono persi dentro negli anni e dei quali non è mai più stata trovata traccia. Il tempo di scorrere con gli occhi lo scaffale delle carte igieniche e di decidere se è meglio quella rosa a stampe allegre o la classica bianca che va bene per tutte le circostanze, che mi giro e lui non c’era più. Panico. Orrore. Immagini di lui rapito ed esportato in India. Primo piano di me in lacrime col microfono dei giornalisti sulla bocca e la telecamera in faccia, mentre la Germania intera raccoglie accorata il mio appello “Ritrovatelo!”. Dunque inizio a correre tra i corridoi, a chiamarlo, a prepararmi la frase in tedesco per le commesse “Ha visto un bambino alto 1.22, con una maglietta blu…?”. Dopo qualche minuto, che cosa vedo? Il bambino bionico, ovviamente ignaro di tutto il terremoto emotivo che mi aveva provocato, rilassatissimo, con l’aria allegra e divertita, che scivolava con nonchalance e sicurezza tra una corsia e l’altra a bordo di un monopattino trovato nel reparto sport.

Che dite, ho abbastanza motivi per pensare che , in realtà, si tratti di un essere proveniente da un altro pianeta?

Questione di stile

Qui a Monaco da un paio di giorni fa un caldo, che manco nel deserto del Gobi il 15 d’agosto. Tutto questo calore improvviso, tuttavia, non ha affatto colto di sorpresa i nostri amici tedeschi, i quali hanno prontamente tirato fuori dall’armadio il tipico sandaletto e non solo. È fatto noto ormai come le giornate di sole pieno e stabile qua in Germania siano davvero pochine. Di conseguenza i teutonici tutti, non appena intravedono anche solo uno sparuto raggio dorato che sbuca da una nuvola, per quanto pallido e poco convinto, si buttano all’aperto, migrando in massa allegramente verso a) i Giardini Inglesi, il parco più grande della città, dove, come vuole la leggenda, essi amano stendersi dietro ai cespugli completamente nudi, con le pudenda al vento; b) i vari laghi e laghetti che circondano Monaco per distensive gite in bicicletta con la famiglia intera; c) i sentieri di montagna  lungo i quali si dilettano in simpatiche passeggiate, attrezzati di tutto punto.  E fin qua. Ma ciò che mi lascia davvero perplessa, ancora oggi nonostante i quasi due anni di permanenza, è il modo in cui il tedesco medio si veste per adattarsi alle temperature tropicali che hanno trasformato ieri e oggi Monaco di Baviera in Miami, Florida. Praticamente agghindati come in una puntata di Beverly Hills 90210. Peccato che in Baviera manchino sia il mare che le palme! Ma questo credo che sia sfuggito alla maggior parte dei nostri amici germanici; o forse non è loro sfuggito affatto, ma essi, probabilmente, se ne infischiano con calcolo e fanno “come se”. Altrimenti non si spiegherebbero le decine e decine di persone, da me avvistate in un noto negozio di mobili montabili, vestite come se stessero sfilando lungo viale Ceccarini a Riccione: ciabattine infradito di gomma abbinate a pantaloncini di jeans talmente corti da farli sembrare una cintura e top di stoffa leggerissima, sotto cui ho più volte sospettato si celasse un costume da bagno. Cioè che fossimo stati al parco, uno dice “Vabbè non c’entra molto, ma perlomeno siamo all’aperto.”. No, dentro ad un negozio di mobili, tra il reparto sofà e l’angolo cucine, tra un armadio a quattro ante e una scrivania con sopra finti laptop di plastica grigia e romanzi in svedese (ho provato ad aprirne uno e mi ha incuriosito molto. Si chiamava En omöjlig kärlek, ma ho potuto leggere solo le prime righe: qualcuno sa come finisce?).  Io, che già mi sentivo di osare come una pazza con le mie scarpe aperte giallo senape e lo smalto per unghie arancione, che fa tanto fashion quest’estate, mi sono dovuta ricredere. Che sciocca, sarei dovuta uscire anche io in microgonna e bikini, per meglio adattarmi agli usi locali e mimetizzarmi abilmente tra i nativi!

Tutto questo osservare la fauna umana di Monaco in questo weekend, comunque, mi ha dato modo di avere conferma di un luogo comune che, temo, si basa profondamente sulla realtà: i tedeschi si vestono male. Nemmanco con la globalizzazione e con la diffusione nelle principali edicole dell’edizione internazionale di Vogue, sono riusciti ad educare se stessi al ben vestire. Ok, noi italiani su questo siamo puntigliosi ed esagerati: a volte arriviamo a non osare neppure scendere in tabaccheria per comprare un francobollo, se il colore della tuta da ginnastica non è abbinato a quello del calzino. Ma il tedesco medio va nella direzione opposta: se ne frega. Oppure non ci capisce nulla, è convintissimo, vestendosi, di avere creato abbinamenti  stilistici da far rosicare Karl Lagerfeld, quando in realtà sembra decisamente che gli abbia vomitato addosso l’armadio. Alcuni sono in grado di indossare sei capi di sei colori diversi, di cui neppure due abbinabili vagamente tra loro: cappello verde, camicia lavanda, cardigan pesca, pantaloni marroni, cintura avorio, scarpe beige. Oppure li vedi con un pezzo di sopra pregiatissimo ed elegante e sotto un paio di pantaloni che risalgono a sette stagioni prima, sia per stile che per usura. O ancora vedi donne con gambe oscene e pelose indossare indomite gonne supercorte e magari coprire bellamente l’unica parte del corpo che dovrebbero invece valorizzare senza remore. Ad esempio, hai un decolletè da far scatenare la rabbia di Scarlett Johannson, amore? Ma mettiti un bel top scollato rosso corallo, che va tanto adesso e lascia perdere il lupetto che tanto ti piace, ma che cela le tue beltà, ciccina! Dai, che non ci vuole Miuccia Prada per arrivarci!

O come detto i tedeschi sbagliano completamente la tenuta rispetto all’occasione. Oltre ai già citati turisti da spiaggia nel negozio di mobili, infatti, potrei dirvi di quella signora avvistata oggi pomeriggio che, per portare il cane a passeggio, si è premurata di indossare un tubino nero, un cardigan di seta fucsia e sandali neri aperti tacco 17! Forse pure il cane, nero anche lui come il tubino – quantomeno l’abbinamento dei colori era azzeccato – aveva dei coprizampa coi tacchi, ma non ci ho fatto caso. Un bijoux, se la signora si fosse trovata al cocktail d’inaugurazione di una mostra di Chagall! Insomma, nel complesso il modo di vestire dei nostri amici germanici è una catastrofe, mi dispiace dirlo, perchè sapete che per i tedeschi e la Germania ho sempre un occhio di riguardo. Tranne che stavolta.

E a proposito di abbigliamento, mi viene in mente quella collega tedesca che, dopo qualche tempo che ci conoscevamo, m’invitò a pranzo e mi disse: “Vedo che sei italiana per il modo in cui ti vesti!”. Io non dissi nulla e continuai a mangiare. E lei, dopo un po’ ruppe il silenzio con un: “No, ma era un complimento.”. E te credo! Che, voleva essere pure un’offesa? Ma mi faccia il piacere!

Il cibo degli dei?

 

 

 

 

 

 

In una pigra mattina di poco tempo fa, me ne stavo al computer senza avere uno scopo in particolare. Navigavo tra una pagina web e l’altra, quando all’improvviso mi capita un’e-mail da una delle mie numerose sorelle. Dentro all’e-mail vi era un link ad un articolo. Eccolo:

http://www.bbc.co.uk/news/magazine-17753372

La sorella mi ha chiesto conferma della verità di quanto scritto. “È vero che in Germania si è appena aperta la stagione dell’asparago? È vero che ci sono festival dell’asparago un po’ ovunque?  È vero che tutti i ristoranti offrono specialità a base di asparago? Eireen, illuminami.”. Ora, dovete sapere che io ho uno strano rapporto col cibo. Quello che mi trovo davanti, se non rientra nella gamma di cibi che aborro, lo mangio e non distinguo troppo: mi va bene anche un piatto di spaghetti scotti con il sugo pronto, anche se non scaldato. Per dire. Se poi considerate che, in più, ho dei gusti particolarissimi, per cui mangio solo alcuni tipi di cibi* e l’asparago non rientra tra quelli, insomma, avrete capito non sono esattamente la persona più adatta per questa inchiesta approfondita sull’asparago in Germania. Quindi che esso fosse una prelibatezza e che addirittura ci fosse qui una stagione specifica per inneggiarlo, beh, mi era proprio sfuggito! Ma proprio mentre riflettevo su questa ed altre importanti questioni, tipo c’è una vita oltre la morte, esiste la reincarnazione, e se sì, mi reincarnerò in un asparago? Proprio in quel momento, dicevo, sento la diri, ossia la dirimpettaia, la collega tedesca che siede di fronte a me, che parla al telefono con un ristorante, per decidere il menù di un’imminente cena ufficiale. E che cosa sta discutendo nello specifico?  Il lettore più acuto e attento avrà già capito: una serie di portate con protagonista l’asparago. Entrecôte a base di asparagi, risotto con salsa d’asparagi, bollito con contorno di asparagi in umido, budino all’asparago con salsa di fragoline di bosco, caffè con punta d’asparago, liquore all’asparago e infine, omaggio della casa: bignettini farciti con crema d’asparago. Un trionfo! Ma allora è proprio vero, mi sono detta: l’asparago domina.

E nel frattempo si era scatenato il confronto via e-mail tra me e tutte le sorelle. Una quadrangolatura tra la Germania, l’UK, l’Italia e persino l’Australia. Un dibattito accesissimo sull’asparago e le sue numerose qualità, in barba al fuso orario che separa Londra da Sydney! A me l’asparago piace da impazzire, scrive una, e quando è la stagione giusta, non me lo nego. Io lo odio, ma come puoi? ribatte l’altra. Ma Eireen, tu non capisci che è una squisitezza, un cibo degli dei, rilancia una terza. Provate l’asparago bollito con un filo d’olio d’oliva: delicatissimo, conclude la quarta e chiude la bocca a tutte. Io, non paga di quanto appreso fino a quel momento, decido che avrei approfondito l’argomento e che avrei conosciuto tutte le sfumature della cultura dell’asparago in terra teutonica. Così ho scoperto che esistono, solo a mo’ di esempio:

– il sito web spargel.de, interamente dedicato al prelibato ortaggio; “ein Geschenk der Natur”, un regalo della natura, come viene definito dal sito stesso. Vi si trovano ricette a base d’asparago, fotografie di asparagi, moduli per ordinare a casa quantità sconfinate di asparagi.

– il sito Spargel-Treffen, ossia “l’incontro degli asparagi”, che indica i luoghi in Baviera in cui viene coltivata la verde-bianca golosità.

– feste locali dell’asparago (una c’è il 17 maggio: sono ancora in tempo a farci un salto) così organizzate e ricche di eventi, da far vergognare al confronto una qualunque Sagra della Porchetta nostrana.

– negozi virtuali on lain nei quali si trova tutto, ma proprio tutto, a riguardo dell’asparago, compreso l’apposito coltello per pelarlo. In tre diversi modelli.

– la Spargellauf, la corsa dell’asparago, che si tiene il 1 giugno 2012 nella cittadina di Deinste. Fermi, fermi, fermi, non correte ad iscrivervi, perchè i posti sono già tutti presi, spiacente. Tuttavia potete prenotarvi adesso per la corsa del 2013. Affrettatevi!

Insomma, tutto questo pout-pourri di iniziative è roba da fantascienza, almeno per me. Chi l’avrebbe mai detto? Chi sapeva che i tedeschi – e a questo punto, sospetto, non solo loro – adorano l’asparago e che hanno sviluppato un’incredibile sottocultura al riguardo? L’articolo in inglese, quello mandatomi dalla sorella, parlava addirittura dell’elezione di una reginetta dell’asparago. Pensate che emozione, essere per un giorno la più bella tra gli asparagi, la signora dell’ortaggio, la principessa dell’orto. Quasi quasi mi candido.

E voi? Che specialità alimentare si festeggia nei vostri paesi e in che modo? Quali tradizioni e festival sono legati a quale cibo in particolare? Dite la vostra!

*(ad esempio no assoluto al formaggio, a parte la mozzarella sulla pizza e il grana sulla pasta; no agli insaccati, escluso il prosciutto, ma crudo; no alle verdure cotte, ma fredde, ma per le carote si fa un’eccezione e via dicendo. In pratica mi rimangono solo la frutta, il riso e i biscotti)

I motivi per cui restare

Come ho raccontato in più post, ogni volta che faccio rientro sul suolo italico per le ferie d’ordinanza, vengo colta da attacchi di mal d’Africa mica da ridere. No, non che io voglia tornare nella sconfinata savana a correre con le gazzelle e sentire il contatto con madre terra, cosa che per inciso non ho mai fatto.  Intendo dire che la mia città d’origine in Italia, nel momento in cui mi ci reco in vacanza, improvvisamente mi sembra il luogo più accogliente del mondo, quando fino a ieri in pratica ci sputavo sopra. Tipico effetto boomerang dell’espatriato: ma fa parte del gioco e bisogna in qualche modo farci i conti. Poi, al rientro a Monaco, i giorni scorrono, io riscivolo nella routine e, come per magia, mi dimentico della nostalgia di casa. Perchè alla fine, diciamocelo pure senza pudore, a Monaco ci sto bene, faccio la vita che ho tanto a lungo desiderato e, grazie al cielo, tante mattine ancora mi sveglio “confusa e felice” di abitare e lavorare qui. E sospetto che non si tratti solamente di un fatto soggettivo. Voglio dire, ci sono anche dei fatti indiscutibili che mostrano che qui si vive bene e mi fanno pensare che i miei pensieri periodici di rientrare debbano rimanere , appunto, solo pensieri.

Tanto per dire, in ordine totalmente sparso, ecco alcune motivazioni per rimanere:

–          Monaco è una città super-sicura. Puoi dimenticare la tua borsa con dentro passaporto e chiavi di casa in metropolitana  e, garantito al cubo, la ritrovi dopo due giorni all’ufficio oggetti smarriti. Con tutto il suo contenuto intatto. Puoi parcheggiare la macchina per una settimana in una strada pubblica e al tuo ritorno ritrovarla esattamente come l’hai lasciata, senza un graffietto in più o uno specchietto in meno. Se sei un bambino di 8-10 anni, puoi già andare a scuola in metro da solo; e arrivarci. Tutto intero.

–          Fai la conoscenza di una tua lettrice, giovanissima ed intraprendente ingegnere, che sta facendo le valigie per andare a lavorare in Norvegia e alla domanda: “Ma quanto conti di restare?”, ti risponde, con un gran sorriso: “Non lo so”. E ti fa capire, che se ci starà bene, potrebbe anche decidere di rimanere. Allora ti chiedi perchè l’Italia continui a formare gente sveglia ed intelligente, che poi per trovare condizioni lavorative interessanti deve fare 10.000 km.

–          Parli con una tua amica in Italia che fa la pratica da avvocato e contemporaneamente la commessa in un negozio di prodotti cosmetici, che ti dice: “L’italia sta diventando come un paese dell’Est Europa. Rimani dove sei.”. E allora ti ricordi che sei espatriato anche per il futuro di tuo figlio (vedi anche motivazione qua sopra).

– Per questo (anche se io non sono del Sud): http://lafilosofiareggina.com/2012/04/17/lettera-della-madre-di-lucia28-anni-morta-suicidalaureata-con-110-voleva-solo-vivere-in-calabria/

–          Non c’è niente da fare, bisogna che io lo ripeta e lo confermi. Qua le cose funzionano: c’è organizzazione e i servizi brillano. Lo so che se lo chiedi ad un tedesco, ti comincerà a snocciolare i motivi per cui in realtà in Germania le cose non vanno affatto, potrebbero andare meglio e tutto l’ambaradan. Ma per noi che veniamo dall’Italia, questo è un paradiso. Ve lo assicuro. Scusate, ma quando mai da noi capita che mandi un’e-mail ad un ufficio pubblico e dopo pochi minuti l’impiegato ti chiami sul cellulare e ti spieghi che ha bisogno di altri documenti e se puoi, per favore, farglieli avere? Anche via pdf va bene.

–          Il fatto di essere expat, si sa, alza la qualità della vita. Non sei più graziato mensilmente dai classici mille euri al mese. Non sei più costretto a tirare la cinghia su tutto e a non dormire la notte se hai comprato un paio di scarpe di troppo. Puoi finalmente, finalmente, finalmente, fare ragionamenti del tipo: “C’è un bel ponte di quattro giorni a Giugno. Che si fa, si va via? Dai, pensiamo dove.” Invece di “Sabato sera andiamo a cena? No eh? Meglio di no, dai. Un bel DVD e la serata si allieta”. Per carità, è fondamentale godere delle piccole gioie quotidiane e anche stare sul divano col partner a guardare semplicemente un film è una cosa splendida, ma dopo che hai vissuto solo di piccole gioie per tutta la vita, permettemelo, le piccole gioie ti hanno decisamente rotto gli zebedei!

–          Last, but not least, vuoi mettere avere la chance a 36 anni, oppure un’età qualunque, di ricominciare tutto da capo in un posto strepitoso, di mettersi alla prova e vedere che sì, ce la puoi fare, ce la stai facendo, ce l’hai fatta. Hai superato lo scoglio linguistico, inizi a conoscere il territorio e ad avere amici; sei felice di ogni conquista, hai mille luoghi ancora da esplorare, lezioni ancora da imparare e persone ancora da conoscere. Hai spezzato la quotidianità, hai dato il classico giro di vite e, come se non bastasse, ti diverti! Sì, lo so, lo so che poi mi passa e anche Monaco mi sembrerà eccitante quanto Canicattì – senza offesa per i canicattesi – ma per adesso lasciatemi sognare, lasciatemela godere!

Chiarimento indispensabile (once and for all)

Nel lontano ottobre del 2010, in una notte buia e tempestosa,  decisi di aprirmi un blog, ovvero un weblog, un diario on lain. Il senso dell’impresa era quello di raccontare a me stessa, e a chiunque fosse interessato, le mie avventure da espatriata in Germania, i miei pensieri sui tedeschi e gli italiani e le mie riflessioni sull’universo. Nè più nè meno di questo.  Sono stata più che contenta di vedere che, nei mesi, alcune persone iniziavano ad interessarsi a quanto scrivevo e a lasciare commenti ai piedi dei post. Leggere commenti e rispondere ai lettori mi diverte e mi dà soddisfazione: mi sembra un bel modo di condividere esperienze e sensazioni. E fin qua niente di strano.

Solo che ultimamente ho sempre di più la certezza che il senso di questo blog sia stato equivocato, travisato e malinterpretato dai miei commentatori. Perciò questo post serve a chiarire una volta per tutte qual è, ma soprattutto quale NON è lo scopo dei miei scritti.

ATTENZIONE, AVVISO A TUTTI I NAVIGANTI DEL WEB: QUANTO STO PER DIRE VERRÀ RIPETUTO UNA SOLA VOLTA E PER SEMPRE: SI PREGA DI PRENDERNE DEGNA NOTA.

Questo blog NON è un’agenzia di collocamento. L’ho già detto nella sezione FAQ, ma lo ripeto sonoramente: non ponetemi domande sul mondo del lavoro tedesco. Primo: io lavoro in un’organizzazione internazionale con regole e modi di lavorare che esulano dal resto della Germania. No, non so come funziona in Germania coi licenziamenti e le liquidazioni o i congedi di maternità. No, non conosco gli stipendi medi tedeschi delle varie categorie di lavoratori: conosco lo stipendio medio mio e questo mi basta.  Secondo: io lavoro a Monaco di Baviera come ASSISTENTE DI DIREZIONE. Non ne so un piffero delle possibilità di lavoro che ci sono, che ne so, a Dortmund per esperti di pannelli fotovoltaici. No, non so neppure che possibilità avete se volete aprire un ferramenta a Düsseldorf. Perciò NON me lo chiedete. Accetto solo domande inerenti alla mia area d’interesse: diversamente rischierei di dirvi un cumulo di sciocchezze.

Questo blog NON è assolutamente un’agenzia immobiliare. No, non conosco tutte le zone della città, ma solo la mia e il centro. No, non ho amici che cercano coinquilini. Non ho neanche amici, ok? Non chiedetemi se conosco case sfitte o se vi posso trovare una camera. Non posso. Qui a Monaco avevo già la pappa…ehm…la casa pronta e quindi non ne so un pero di come si cerca casa qui. So solo che i prezzi degli appartamenti sono esorbitanti. Perciò vi diffido dal chiedermi robe tipo “Siamo una famiglia con 4 bambini molto vivaci. Mio marito parla un po’ francese e lavorerà in zona nord, mentre i miei figli andranno a scuola a sud. Esiste un quartiere a metà strada, che accoglie volentieri tanti bimbi chiassosi e magari multiculturale con prevalenza di immigrati dal Quebec? E secondo te la scuola che ho scelto per i pargoli è buona?”. Risposta: ma che ne so?

Questo blog NON è un’agenzia di disbrigo pratiche burocratiche varie per immigrati italiani a Monaco. Spiacente, ma essendo io anche cittadina tedesca, arrivata qui ho dovuto fare trafile burocratiche del tutto diverse da quelle che dovrebbe affrontare un italiano che decidesse di emigrare in Germania.  L’unica mia certezza è che esiste un “Kreisverwaltungsreferat” (tipo anagrafe) a cui rivolgersi per questo tipo di domande. Non so nulla o quasi neppure di sanità, o di come si diventa medici di famiglia a Monaco e non sono nel sistema sanitario pubblico. No, non so come si ottiene una tessera sanitaria, nè quali sono le modalità assistenziali previste se uno ha la sindrome di Tourette.

BASTA con le domande se ci si può inserire qui se non si parla tedesco. NO NO NO. NON SI PUÒ! Scordatevi di stare bene qui se non parlate la lingua locale. No, non si può solo con l’inglese. E per cortesia mettete in conto tempi biblici prima di sapere bene il tedesco. Il tedesco è difficilissimo, è una lingua bastarda, iper-precisa e scoraggiantissima. Punto. So di gente che si è suicidata ingoiando il libro di grammatica, dalla disperazione di non riuscire ad imparare il tedesco. Perciò non mandatemi domande tipo: “Eireen parlo solo il dialetto barese, però molto bene. Ho cominciato a studiare tedesco ieri coi corsi accelerati DeAgostini. Secondo te se mi trasferisco a Monaco, trovo lavoro entro il primo mese?”. Risposta: no, stai a Bari, che è meglio!

In generale questo blog NON è la sede delle seguenti iniziative: Associazione Amici dei Prodotti Alimentari Italiani in Alta Baviera; Comitato d’Accoglienza Italiani a Monaco; Gruppo di Aiuto-aiuto per l’Inserimento dell’Immigrante in Germania. No, no, no.

Questo è un diario on lain. Se avete voglia e tempo di leggermi e commentarmi, io ne gioirò infinitamente. Ma non posso in alcun modo darvi aiuti pratici per affrontare al vostro posto il processo di espatrio.

O forse sì? Forse dovrei semplicemente cambiare lavoro ed aprire un’agenzia di prima accoglienza per i nuovi arrivati. Sono 30 euro l’ora per l’assistenza con i documenti da presentare; 25 se siete sposati e con figli (sconto comitiva); 40 per la ricerca casa e lavoro (più impegnativi). 50 per la garanzia di un posto in una scuola privata per i vostri bambini (dopotutto si tratta del futuro dei vostri pargoli). Che dite, diventerei ricca?